FARE L'INSEGNANTE N. 5/2020
Editoriale di Ivana Summa -La scuola di fronte ad un compito di realtà
Che cosa hanno fatto le scuole in questi mesi di choc organizzativo? Presto detto: hanno affrontato un “compito di realtà” somministrato, contemporaneamente e impetuosamente, a ciascun insegnante, al dirigente scolastico e a tutto il personale della scuola, da soli e collettivamente. Chi ci legge sa benissimo che cosa sia un compito di tale natura e come lo stesso - se somministrato in ambito scolastico e formativo - riguardi sia la fase di progettazione del curricolo d’istituto e dei curricoli disciplinari, sia la fase di valutazione delle competenze. Ma perché sia efficace sul piano dell’acquisizione di competenze da parte del soggetto che apprende, è necessaria la cosiddetta autovalutazione che, essendo un processo metacognitivo ed esercitando una sorta di controllo sul proprio apprendimento, induce comprensione profonda e consapevolezza delle proprie capacità.
Se consultiamo qualche manuale, è facile trovare qualche definizione di compito di realtà che, generalmente, viene descritto come una situazione-problema da affrontare utilizzando conoscenze e abilità già acquisite, mettendo in pratica capacità di problem-solving e diverse abilità in relazione all’attività proposta e all’interno di contesti sociali moderatamente diversi da quelli resi familiari dalla pratica didattica. Un compito di realtà non è mai solo un impegno individuale, ma può essere svolto, interamente o in alcune sue parti, individualmente, in coppia, nel piccolo gruppo e contemplare momenti di condivisione con l’intera classe, nel grande gruppo, per l’argomentazione finale. Rappresenta uno spazio di autonomia e responsabilizzazione dell’allievo ed avere una connessione evidente e diretta con il mondo reale e una esplicita significatività per gli alunni che vengono sollecitati e motivati dalle sfide che in esso si propongono. L’impegno di lavoro richiesto deve collocarsi nella zona di sviluppo prossimale di ciascuno, in cui non si conosce ancora bene la situazione ma si possiedono tutti gli strumenti cognitivi per affrontarla e risolverla. Pensare il compito di realtà in questi termini - per il solo fatto che vengono stimolati contemporaneamente l’impiego di processi cognitivi complessi, come il ragionamento, il transfert, il pensiero critico e divergente, ma anche processi emotivi di diverso tenore ed intensità - significa prevedere per la sua realizzazione differenti modalità di azione e percorsi di soluzione. Tradotto: non c’è un unico e predeterminato percorso e ci sono soluzioni diversificate.
Tuttavia, il compito di realtà che ha affrontato la scuola in questi mesi deve essere collocato nell’ambito dell’imprevisto e dell’inatteso. Non rientra, infatti, nell’alone dell’incertezza in cui si colloca l’agire umano e delle istituzioni nelle quali, in quanto pubbliche amministrazioni, il massimo di stress finora era causato dalle riforme che, peraltro, hanno abituato le scuole al trasformismo burocratico. Insomma, si è trattato finora di compiti affrontabili dalle scuole.
Dunque, proprio perché è stato un compito immane, diventa necessario che ogni scuola si autovaluti per davvero, interrogandosi con modalità partecipative e approccio riflessivo su:
come ha risolto i problemi più impellenti causati dall’inaspettata chiusura;
come può capitalizzare ciò che è stato appreso sul campo;
che cosa può salvare delle attività praticate prima del lockdown;
che cosa ha appreso dalle attività realizzate;
quali aspetti necessitano di un confronto a tutto campo;
quali processi, connessi con tutti igli aspetti riguardanti;
se tornare al passato o innovarsi profondamente.
In sostanza le singole scuole - uscendo dalle asfissie burocratiche del RAV, dei PdM e del bilancio sociale - dovrebbero realizzare una autentica autoanalisi d’istituto. Autentica vuol dire genuina, vera, originale, non falsata dalla cultura dell’ adempimento. Parlare di autoanalisi, poi, significa rinunciare a logiche modellistiche e di comparabilità con altre scuole più o meno simili, ed anzi puntare sulla soggettività e sull’emersione di istanze interne. Si tratta pur sempre di un’autovalutazione, ma condotta con modalità gestite direttamente dagli attori scolastici (i docenti, innanzitutto!), utili ad analizzare criticamente e rielaborare le proprie pratiche didattiche che, in questi ultimi mesi, hanno subito uno sconvolgimento più o meno consistente. L’autoanalisi richiede un approccio situato all’autovalutazione, poiché la singolarità dei processi formativi sta proprio nella loro correlazione con il contesto in cui avvengono, ma anche un approccio partecipato in modo esteso, perché tutti hanno vissuto la stessa storia ma in modo differente. La riflessione che si attiva nell’autoanalisi deve essere, per così dire,“armata” degli attrezzi giusti e senza pregiudizi per raccogliere i dati, ma anche coinvolgente come solo può avvenire in un’attività di ricerca-azione, tutta guidata dalla volontà di innovare profondamente l’offerta formativa della scuola poiché si prende coscienza del fatto che è stata messa in crisi la nostra stessa professionalità.
Non si tratta di rifare il RAV come atto dovuto con scadenze fissate dal superiore ministero, ma di una scelta forte, inattesa e imprevista che una scuola coraggiosa compie in piena autonomia, riappropriandosi in modo endogeno del contenuto stesso del proprio lavoro: insegnare per far apprendere. E ciò comporta, inevitabilmente, un bilancio di ciò che è stato realizzato per ri-creare un futuro realizzabile perché pensato da tutta la comunità professionale. Non proponiamo, infatti, un corso di formazione in cui l’esperto deve convincere l’uditorio a sostituire alcune pratiche professionali con altre così nuove da sembrare impraticabili e, comunque, rischiose. Stiamo proponendo - ispirati da alcuni contributi inseriti in questo numero e dalle tante suggestioni provenienti dalla stampa e dai social media - che la scuola, una volta tanto, abbandoni lo stato di “confusione valutativa” in cui è precipitata quando si è interrogata su come valutare gli studenti, salvo accorgersi che non si può valutare tutto e, soprattutto, nello stesso modo. L’autovalutazione con modalità analitica, situata e partecipata, quand’anche non producesse quell’innovazione radicale nella didattica, intra-moenia ed extra-moenia, che è il vero problema che va affrontato da ciascuna scuola, sarebbe comunque un’autentica formazione in servizio.
Come scrive Massimo Recalcati su Repubblica del 29 maggio, è necessaria “...una volontà decisa di cogliere in questa tremenda emergenza l’occasione per una rivoluzione culturale”, riferendosi a tutta la società. E le nostre scuole desiderano questa rivoluzione culturale o vogliono tornare alle vecchie routines didattiche e valutative.
Nei diversi spazi che la rivista riserva ai contributi dei nostri autori, troverete interessanti spunti per una rivoluzione culturale. Cito, tra gli altri, la riflessione di Gabriele Benassi, docente di lettere nella scuola secondaria di 1° grado e consulente del ministero per il PNSD che testualmente non ha paura di affermare quanto segue: “Sarà opportuno un monitoraggio sugli esiti, che, credetemi, non saranno molto diversi, come livelli di apprendimento, da quelli consueti. Non c’è da meravigliarsi perché la nostra scuola, così come è strutturata, mantiene tendenzialmente i livelli di entrata per tutto il suo corso.è purtroppo frequente che chi entra fragile esca fragile. Non mi meraviglierei quindi se i dati in uscita di questo anno scolastico non si diversificassero da quelli degli anni scolastici precedenti. Chi era bravo in classe, lo è stato a distanza; chi era fragile in classe, lo è stato anche a distanza”.
Sempre restando nell’ambito di riflessione riservato alla valutazione, degno di nota è il contributo di Loredana De Simone che, alla guida di un istituto comprensivo, ha accompagnato“a distanza” ma con vicinanza e prossimità professionale, anche e soprattutto sul piano pedagogico e didattico, la crescita di tutto il collegio dei docenti e di tutti e tre i gradi di scuola, proprio inducendo una! riflessione sulla funzione formativa della valutazione sia per gli alunni che per i docenti.
Infine, la valutazione viene affrontata, sotto il profilo giuridico, da Anna Armone che, prendendo spunto proprio dal testo del d.lgvo n. 62/2017, sottolinea che una valutazione sensata anche sul piano formale deve basarsi su un procedimento sensatamente motivato. E così conclude:“La scuola, se privilegia la valutazione formativa, in realtà assume come focus la valutazione delle competenze che, come è noto, è prevista alla fine della 5a primaria, a conclusione della scuola secondaria di 1° grado, a chiusura del biennio della scuola secondaria di 2° grado e, infine, a conclusione dell’esame di stato quinquennale. Ma l’iter procedurale, nella valutazione formativa riguardante gli anni intermedi, potrebbe essere il medesimo e nulla vieta di praticarlo per trasformare i livelli previsti dalla certificazione di competenze in voti numerici”.
E ricordiamo che questa rivista , più modestamente, intende diffondere la cultura delle competenze: degli alunni, dei docenti e di tutta la scuola. Se una scuola non pensa e non fa ricerca in innovazione non è un’istituzione competente.